di Diego Angelo Bertozzi
Nel suo discorso del maggio del 2014 all'accademia militare di West Point, il presidente Obama presentando le innovazioni riguardanti la dottrina militare Usa, aveva sottolineato in quale campo la “potenza di fuoco” di Washington sarebbe rimasta inarrivabile per gli avversari strategici: “I nostri valori ispirano i leader nei parlamenti e dei movimenti scesi nelle piazze di tutto il mondo. […] La nostra capacità di plasmare l'opinione pubblica mondiale ha contribuito a isolare la Russia. Grazie alla leadership americana il mondo ha immediatamente condannato le azioni russe, l'Europa e il G7 si sono uniti a noi nell'imporre sanzioni, la Nato ha rafforzato il nostro impegno per gli alleati dell'Europa orientale […]”. Insomma, veniva annunciato chiaramente come la superpotenza potesse mobilitare, ancor prima dei propri bombardieri, un vero e proprio esercito di riserva costituito da partiti amici, fondazioni, giornali e organizzazioni non governative (la “società civile”) al fine di indebolire un governo ritenuto ostile. Scatenare, cioè, quel “bombardamento dell'indignazione” - l'espressione è dello studioso Domenico Losurdo – che alimenta il consenso pubblico internazionale – il fronte interno – in vista di un intervento militare.
In quello che abbiamo definito “esercito di riserva”, un ruolo di primo ricoprono certo le tante organizzazioni non governative – ma spesso finanziate e sostenute indirettamente da governi – che si occupano della tutela dei diritti umani e che oggettivamente in questi anni hanno contribuito alla copertura ideologica delle tante esportazioni di democrazia manu militari condotte dagli Usa e dalla Nato.
Non può quindi sorprendere che Paesi come la Cina e la Russia siano ricorsi ad una regolamentazione delle tante Ong che operano sul loro territorio. Noi ci soffermiamo sul primo Paese perché recentemente ha approvato – dopo un lungo esame e recependo in parte anche le preoccupazioni provenienti dall'estero ma non evitando le consuete critiche occidentali – una nuova legge chiamata a controllare l'attività delle oltre 7.000 organizzazioni non governative ospitate, con il chiaro intento di limitare un pericoloso sconfinamento in ambito politico.
Non c'è dubbio che il governo di Pechino abbia di fronte a sé pericolosi esempi di sostegno straniero alla sovversione interna – dall'aggressione alla Jugoslavia del 1999 a quella alla Libia del 2011 – che hanno mostrato come il mantenimento dell'egemonia sulla propria “società civile” sia strategicamente indispensabile. Ma non solo: dimostrati e dimostrabili sono i collegamenti stranieri attraverso ong– che certo non spiegano tutto ma servono a comprendere la portata della minaccia – tra i leader del movimento degli ombrelli di Hong Kong (“Occupy Central”) e quelli dell'indipendentismo Uiguro (Uighur World Congress).
C'è poi da far fronte a quello che possiamo definire il “braccio ideologico” del Pivot to Asia dell'amministrazione Obama, vale a dire l'invito che giunge da più parti a riprendere con coraggio la missione democratica statunitense: per impedire che la Cina popolare diventi una minaccia sempre più seria al dominio (o alla pretesa di dominio) di Washington si deve agire per una sua democratizzazione, vale a dire per farla finita con la guida politica esercitata dal Partito comunista cinese.
Portiamo due esempi tra i tanti: nel maggio del 2015 il Weekly Standard di fronte alla sfida portata a livello internazionale da Pechino - “la posta in gioco non è solo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ma il futuro del sistema internazionale che la nostra nazione ha contribuito a creare ed ha condotto per sette decenni” - invita a considerare come “il grande obiettivo della strategia degli Stati Uniti dovrebbe essere la spinta continua per una Cina libera e democratica” e l'impegno costante per una “evoluzione pacifica” che porti alla fine del regime comunista. Per fare questo bisogna puntare, ad esempio, sulla “diffusione del cristianesimo” e sulla “nascente classe imprenditoriale” e, soprattutto sui numerosi “democratici latenti” che vivono e lavorano nel Paese: “gli alti funzionari americani dovrebbero tenere riunioni regolari con i riformatori cinesi e i dissidenti, considerare i diritti umani come una priorità top-line nel dialogo strategico ed economico annuale, e aumentare i finanziamenti per i programmi in Cina del Fondo per i diritti umani e la democrazia”. Qualche mese prima, Scott Moore del Council on Foreign Relations aveva invitato il governo degli Stati Uniti ad approfittare della mobilitazione e delle proteste in atto ad Hong Kong – oltre che a dare sostegno ai manifestanti – per spingere Pechino ad una riforma politica. Più in generale, secondo lo studioso, “le proteste di Hong Kong devono consolidare la volontà statunitense di promuovere i movimenti democratici in tutto il mondo”.
In questo quadro si inserisce la legge, approvata a fine aprile dal Comitato permanente del Congresso Nazionale del Popolo (il parlamento cinese), che regolarizza e non vieta la presenza e l'azione dello organizzazioni non governative in Cina. Sono posti limiti che hanno molto a che vedere con la sicurezza interna e la stabilità politico-sociale: si richiede alle Ong straniere di registrarsi presso la polizia cinese e il Ministero della Pubblica Sicurezza, prima di iniziare le proprie operazioni; ad esse è fatto divieto "di gestire o sponsorizzare attività commerciali e politiche o di impegnarsi illegalmente o sponsorizzare attività religiose"; di porre in essere azioni che "minano l'unità del Paese, la sicurezza, o la solidarietà etnica". Inoltre sono previsti severi controlli che saranno eseguiti anche sulle loro fonti di finanziamento: i bilanci devono essere pubblici e approvati dalle autorità. La questione posta è semplice: ad essere colpita è la libertà in generale, oppure la libertà dell'Occidente di utilizzare a scopo di sovversione – una forma soft di guerra – organizzazioni private?